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Un premio speciale al Governo Berlusconi per la lotta alla mafia. L’ha idealmente assegnato il Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso, intervistato una settimana fa da La Zanzara. Spiegò anche perché. Quando Angelino Alfano era ancora Ministro della Giustizia accolse una richiesta del Procuratore Grasso: «Falcone nel creare la Procura Nazionale Antimafia, che io dirigo, aveva omesso di inserire la legge Rognoni-La Torre, che sequestra i beni ai mafiosi, tra le cose di competenza della direzione distrettuale. Adesso le indagini che fanno gli specialisti dell’antimafia vengono utilizzate anche per sequestrare e confiscare i beni. Questo ha fatto salire moltissimo i beni sequestrati: sono arrivati in tre anni e mezzo a qualcosa come 40 miliardi di euro». E ciò grazie all’adozione del “Codice Antimafia” da parte del Governo Berlusconi, che – a detta dell’attuale Ministro Severino – «rappresenta la novità di maggior rilievo del 2011, sul fronte dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata», come ha dichiarato al Parlamento in occasione della Relazione annuale sullo stato della Giustizia.

A ciò si aggiungano i dati del Viminale, che troppo spesso vengono saltati a piè pari per parlare maliziosamente d’altro: 9.085 mafiosi arrestati, segnando un +31% rispetto al periodo precedente; 32 latitanti di massima pericolosità catturati, segnando addirittura un +78% rispetto al periodo precedente.

Il tema della legalità, dunque, è prioritario per Il Popolo della Libertà. Dove per “legalità” si ha un concetto ampio, non riduttivo in senso giustizialista. Per il PdL il tema comprende l’urgenza di un ripensamento dell’ordinamento giudiziario. A tal proposito voglio citare un importante contributo: «Occorre rendersi conto, infatti, che l’indipendenza e l’autonomia della magistratura […] rischia di essere gravemente compromessa se l’azione dei giudici non è assicurata da una robusta e responsabile professionalità al servizio del cittadino. Ora, certi automatismi di carriera e la pretesa inconfessata di considerare il magistrato – solo perché ha vinto il concorso di ammissione in carriera – come idoneo a svolgere qualsiasi funzione (una sorta di superuomo infallibile e incensurabile) sono causa e non secondaria della grave situazione in cui versa attualmente la magistratura». Prosegue ancora l’autore della citazione: «Se non si terrà conto, infatti, che la connotazione come parte del pubblico ministero e la sua maggiore incisività nella ricerca e nella formazione della prova richiedono inesorabilmente una sua specifica professionalità, che lo differenzia necessariamente dalla figura del giudice (…), si correrà il rischio concreto di formare dei pubblici ministeri professionalmente non idonei e, quindi, di non assicurare un efficace funzionamento della giustizia penale». Chi chiedeva di «ridiscutere e approfondire» «i criteri di addestramento e aggiornamento professionale del pubblico ministero, la stessa unicità della carriera con quella dei giudici, i criteri di valutazione e progressione in carriera», la necessità di rivedere «difese quasi sacrali di istituti, come ad esempio quello dell’obbligatorietà dell’azione penale», «nella consapevolezza che dal modo in cui questi temi saranno risolti dipenderà il ruolo della magistratura nella lotta alla mafia e, in genere, alla criminalità organizzata», altri non era che Giovanni Falcone.

A 20 anni dalla strage di Capaci, dove persero la vita il giudice, sua moglie e gli uomini della sua scorta, non dobbiamo dividerci per chi arriva primo a mettere la propria bandiera sul lascito di Falcone e Borsellino, come troppo spesso è accaduto. Si esca dalla retorica di circostanza e si ragioni insieme su come rendere più efficace nella lotta alla criminalità il funzionamento della giustizia. Per il bene di tutti. Prima che della propria parte politica.  

Matteo Forte

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