Dopo Arezzo: ripartire dalla soggettività della società
La mia riflessione, ospitata e pubblicata sul sito della Fondazione Magna Carta, si inserisce nel dibattito sul futuro dell’area moderata che si sta sviluppando anche a seguito del seminario “A Cesare e a Dio”, svolto a Bucine (Arezzo) il 2 e il 3 dicembre, avviato dal Presidente della Fondazione, Gaetano Quagliariello.
La domanda posta da Gaetano Quagliariello circa lo spazio politico per quanti si dicono ancora “moderati” ha il merito di mettere a tema un qualcosa che le varie crisi (prima quella economica del 2008, poi quella pandemica, infine quella energetica legata al conflitto tra Russia e Ucraina) hanno sotteso e hanno impedito di affrontare direttamente, impegnati come siamo nel rispondere colpo su colpo alle necessità che di volta in volta si presentano. Il tema sotteso è quello della fine di un mondo, quello delle democrazie liberali e della loro egemonia sul governo della terra. Non è un tema del tutto nuovo. La novità del dibattito sta nel cercare di capire se e come deve conseguentemente cambiare la rappresentanza politica. La categoria di “moderati” a giudizio di chi scrive non è più in grado di intercettare ampie fasce di elettorato, come in passato invece facevano la Dc e successivamente l’intuito di Berlusconi.
I moderati non sono più in grado perché nella seconda metà del XX secolo rappresentavano quel ceto medio produttivo che si è allargato godendo degli effetti dello sviluppo economico del mondo occidentale. Quello stesso ceto medio però è andato assottigliandosi, si è impoverito e quindi radicalizzato nell’espressione di voto. Se mi limito ad osservare la realtà milanese che ben conosco, negli ultimi dieci anni la ricchezza è indubbiamente cresciuta; si pensi solo al grande evento di Expo 2015 con il suo indotto e il rilancio dell’immagine della città che ancora oggi richiama turisti da tutto il mondo e non più solo per business. Tuttavia è cresciuta per meno di un decimo della popolazione. I fondi del Qatar hanno investito e acquistato i grattacieli che hanno modificato lo skyline del capoluogo lombardo, grazie anche alle intelligenti politiche urbanistiche delle giunte di centrodestra a cavallo dei due secoli e che hanno permesso la rigenerazione di interi quartieri spogliati dalla de-industrializzazione di fine Novecento. Eppure la città espelle sempre più abitanti, con una impennata dal 2019 – complici anche i lockdown – di 3 mila residenti in meno. Espelle sempre più nuclei familiari, contribuendo a quella crisi demografica a motivo della quale a Milano si fanno sempre meno figli (-5% solo nell’ultimo biennio), si contano sempre più single e alcuni suoi quartieri popolari sono tra i più anziani d’Europa. Questo perché la capitale economica del Paese è sempre più esclusiva, il ceto medio sempre più povero per accedere al mercato (specie quello immobiliare, con costi che partono da 3mila euro al metro quadro) e troppo ricco per ricorrere agli aiuti e sussidi pubblici. E tale esclusivismo è ben interpretato dalle politiche delle giunte di sinistra sulla mobilità, con la messa al bando dei veicoli diesel e l’obbligo per circa 340mila cittadini di cambiare quasi da un giorno con l’altro la propria auto per acquistarne una nuova e più costosa, come per esempio quella elettrica. Nella realtà milanese è dunque possibile rinvenire tutti quegli elementi che hanno portato alla rottura di qualcosa nella rappresentanza politico e democratica, ben evidenziata da un astensionismo del 53% alle ultime amministrative. I populismi e i sovranismi hanno saputo individuare problemi veri, ma non soluzioni. A quanti si richiamano alle famiglie politiche tradizionalmente liberali e popolari spetta ancora il compito di indicare strade percorribili, ma mettendosi in discussione. Non si tratta di trasformarsi in no-global dell’ultima ora, quanto di riconoscere che senza un governo da parte della politica non esiste nessun fenomeno che meccanicamente garantisca il bene di tutti e di ciascuno – come invece è stata proprio intesa la globalizzazione. Quest’ultima ha portato nelle tasche di tutti i nostri ragazzi lo smartphone, a costi imparagonabili a quelli sostenuti dai manager milionari che, unici nei prima anni ‘90, potevano acquistare il loro mobile. Ma i ragazzi di oggi sono gli stessi che a mano a mano abbandonano gli studi e rinunciano a qualunque esperienza lavorativa, alimentando così il fenomeno del ritiro e della reclusione sociali. A Milano per esempio contiamo il 16% di neet. Si tratta quindi di mettere in discussione il paradigma culturale sotteso al processo che ha accompagnato il mondo dal 1989 ad oggi. Si tratta sì del liberalismo, ma non di quello classico che ha originato il nostro sistema di garanzie per la libertà della persona, attraverso la divisione del potere, e per quella d’impresa, senza così sottostare ad alcuna preventiva autorizzazione da parte dell’autorità pubblica. Si tratta piuttosto di quel liberalismo di Rawls imperniato sull’individuo sciolto da qualunque legame comunitario, culturale, religioso, nazionale in nome di un malinteso egualitarismo che tutto livella. Qui l’individuo finisce per trovarsi in balìa dei potentati economico-tecnocratici e di quella che, negli ultimi trent’anni, si è mostrata alla stregua di una «dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (J. Ratzinger). Secondo questa filosofia politica sono le forze del mercato a governare il mondo – come ebbe a dire Alan Greenspan intervistato da un giornale svizzero nel 2007. I governi nazionali si dovrebbero limitare così a raddrizzare le storture e compensare la mancanza di lavoro attraverso assegni universali (idea che avvicina i 5S a Bill Gates) e moltiplicare i diritti individuali (all’eutanasia, al figlio a mezzo dell’utero in affitto, al matrimonio omosessuale, ecc.). Tutto ciò ha finito per corrodere dal di dentro i nostri sistemi, con l’esplosione della spesa sociale e assistenziale, proporzionale al malessere e al disagio di sempre più ampie fasce di popolazione, ed una generale sostituzione dei luoghi decisionali democraticamente legittimati con organismi sovranazionali anonimi, o da corti che affermano nuovi diritti per via giudiziaria. Significativo da questo punto di vista quanto accaduto negli anni della crisi economica: le banche francesi che erogavano mutui negli USA erano le stesse esposte con il governo greco che rischiava di essere insolvente a causa di pluriennali politiche generose verso i propri cittadini. Il risultato fu l’intervento della famigerata Troika che condizionò aiuti internazionali ad Atene all’introduzione da parte di questa di misure da lacrime e sangue. Significativa altresì l’erogazione di risorse del recovery fund da parte dell’Ue a Polonia e Ungheria in cambio del cosiddetto rispetto dello Stato di diritto, ridotto alla pedissequa applicazione dell’agenda Lgbtq e all’introduzione dell’aborto, in violazione però della sovranità decisionale su simili materie sancita in tutti i trattati comunitari. O ancora: la pronuncia di questi giorni della Corte europea dei diritti umani con cui i giudici censurano la legge danese che vieta l’adozione di minori da parte di chi ha pagato una madre surrogata per ottenerne la gestazione.
La risposta dei cosiddetti moderati non può essere dunque la pura difesa dello status quo e la pretesa di dimostrare agli elettori di una volta quanto abbiano sbagliato a votare nell’ultimo decennio. Come non può essere il macronismo di Renew Europe, così figlio del liberalismo di Rawls con quella sua matrice culturale all’insegna del «do it yourself, autorizzato da una società dell’accesso dove tutti possono imparare senza insegnanti, ottenere informazioni senza giornalisti, ascoltare musica senza andare a un concerto, diventare artisti senza produrre oggetti d’arte, fatica inutile» – ha spiegato il filosofo Régis Debray (cfr. Il nuovo potere. Macron, il neo-protestantesimo e la mediologia, p. 39). Occorre invece trovare una via d’uscita dal populismo inconcludente cercando soluzioni ai problemi che esso ha pur avuto il merito di sollevare. Occorre recuperare quella visione antropologica che vede nella natura sociale dell’uomo la sua possibilitá di realizzarsi come persona e nell’appartenenza ad una comunità il veicolo di una tradizione, capace ancora di comunicare senso e significato all’esistenza e informare anche opere sociali in grado di rispondere a bisogni ed esigenze nuovi. Occorre promuovere una nuova visione economica che attinga più dal capitalismo meridiano dei nostri Comuni medievali, dove i mercanti intraprendevano iniziative per “amore della gente”, si prevedevano quote per i poveri nei libri contabili e venivano fondati i Monti di pietà, piuttosto che da quello del nord Europa basato sull’idea che il successo e il profitto individuali siano segno della predestinazione divina alla salvezza. Occorre riaffermare che oltre allo Stato e al mercato esiste quella “soggettività della società” fatta di libere associazioni, privato sociale, non profit, chiese e minoranze creative che, come scrisse Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, possono soddisfare quei bisogni propriamente umani di riconoscimento che non sono “solvibili” né “vendibili”. Lo spazio al centro sembra essersi chiuso, specie in un sistema che dal 1993 ad oggi rimane fondamentalmente maggioritario. Può essere il conservatorismo, di cui il premier Meloni è la massima rappresentante europea, un ombrello sotto il quale cercare una nuova sintesi delle culture politiche tradizionalmente moderate? Può essere questa categoria una via d’uscita dal populismo che pure ha egemonizzato l’offerta politica del centrodestra, almeno dalla fine dell’ultimo governo Berlusconi ad oggi, dimostrandosi indubbiamente capace di raccogliere voti e tuttavia decisamente meno di amministrare? Dalla risposta a queste due domande dipende non solo il futuro di un’intera area politica, ma anche il corso dei prossimi anni di governo. Tanto a livello nazionale quanto a livello locale, con le importanti scadenze elettorali previste già nei primi mesi del 2023.