Non possiamo non dirci berlusconiani
Politicamente la mia generazione è berlusconiana. Non possiamo non dirci berlusconiani. La mia generazione si è affacciata alla politica dentro quello schema berlusconismo/antiberlusconismo che dal 1994 si era sostituito a quello fascismo/antifascimo e che aveva retto tutta la prima Repubblica. La sua discesa in campo polarizzò il sistema politico come quello mediatico, con quanti si rifiutavano di dare audience ai programmi Rai “di sinistra” e chi raccolse le firme per un referendum mirato ad oscurare le reti del biscione.
Berlusconi dischiuse le porte della seconda Repubblica, anche se in realtà la prima non è mai finita e a tutt’oggi viviamo dentro la sua lunga coda. La magistratura aveva spazzato via il pentapartito, di cui la maggior parte dell’elettorato (socialista, socialdemocratico, repubblicano, liberale o democristiano che fosse, laico e cattolico) si trovò orfano e al tempo stesso “adottato” da Berlusconi, ma senza un vero cambio di sistema istituzionale che introducesse l’Italia in una nuova Repubblica. E qui stanno insieme la grandezza e il limite dell’impresa politica di Silvio Berlusconi: l’appuntamento mancato con le riforme tanto evocate (quella del fisco, quella della giustizia e quella dello Stato), la rivoluzione liberale annunciata e mai veramente compiuta (quel “più società e meno Stato” che abbiamo visto nella riforma del mercato del lavoro del 2003, ma che mai ha sostanziato la rivendicazione da parte di tanti suoi elettori di una maggiore libertà educativa con il pieno raggiungimento della parità scolastica). Grandezza che si è vista soprattutto nel “primo” Berlusconi e limite emerso prepotentemente nel “secondo”, con la crisi del 2011. E non tanto per lo spread, ma perché quella straordinaria parabola politica iniziata con la promessa di “meno tasse per tutti” si chiuse con l’invenzione delle clausole di salvaguardia e l’aumento automatico dell’Iva per contenere il debito (per quanto rinviato e di volta in volta disinnescato).
Non è morto solo uno di quei grandi che riempiranno i manuali di storia, ma finisce un pezzo di storia italiana. Un pezzo della nostra storia italiana. Non solo quella “storia italiana” che fu raffigurata e incasellata per ragioni di propaganda nella buca delle lettere per le elezioni del 2001, quando gli elettori mandarono il Cav a Palazzo Chigi per la seconda volta e per il governo più longevo della storia repubblicana. È un pezzo della nostra storia, personale e familiare. Ricordo quando nel 1994 i miei genitori, per la prima volta nella loro vita, parteciparono alla convention di lancio di Forza Italia e tornarono a casa entusiasti perché convinti di aver trovato qualcuno che desse rappresentanza alle loro istanze, quelle per esempio di un lavoratore autonomo con famiglia numerosa come mio padre, da sempre anticomunista viscerale. Berlusconi seppe dare e ridare entusiasmo anche tanti ragazzini come me, a fine anni ’90 tra i più giovani iscritti a Forza Italia, che scoprirono una passione per la politica negli anni subito dopo Tangentopoli, quando le istituzioni (specie quelle giudiziarie, con lo strascico di innocenti incarcerati e suicidi dietro le sbarre causa pubblica gogna) non si mostrarono più garanti dei cittadini. Paradossalmente seppe riaccendere l’entusiasmo anche in tanti che si tuffarono nella contestazione contro lui e i suoi governi, con i girotondi, le occupazioni delle scuole e degli atenei contro le riforme Moratti prima e Gelmini poi. Per questo è un’intera generazione che non può non dirsi berlusconiana. Non c’entra nulla l’adulazione, che pure c’è stata. Certo, Silvio era il gaffeur che faceva le corna nei vertici internazionali e raccontava le barzellette “sporche”. A me e ai miei amici universitari, coi quali nel febbraio del 2009 volantinavamo per le vie del centro di Milano contro la decisione di sospendere le cure a Eluana Englaro (cioé farla morire), poco importava. Rimane il capo del governo che, entrando in conflitto con Napolitano che nel frattempo era stato eletto al Quirinale, firmò un decreto d’urgenza per salvare la vita della giovane e affermare che non c’è condizione di malattia estrema per cui non valga la pena prendersi cura di una persona e affermarne l’infinito valore. E che lo abbia fatto per ammiccare al “voto cattolico” o perché ci credesse davvero, importa ancora meno. Contra facta non valet illatio.
Il giudizio storico non lo daranno né Travaglio, né la Bindi. Tanto meno le sentenze dei tribunali, che in un delirio di onnipotenza dell’ordine giudiziario hanno perso lo scopo di sanzionare i reati per assolvere una funzione pedagogica e moralizzatrice che non compete e non deve competere certo alle toghe. E di fronte alla morte anche il giudizio degli uomini cede il passo alla misericordia divina. Lo ha detto bene il nostro vescovo, Mario Delpini, nell’omelia di ieri, dove anche il desiderio – magari smodato e che tanti guai ha procurato a Silvio Berlusconi – di “amare le feste” e “godere il bello della vita” è un “desiderio di gioia, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento“. Giudizio e compimento che, appunto, non sono nostri.
Politicamente la mia generazione è berlusconiana, dicevo. E lo rimane. È difficile non pensarsi così. È difficile non dirsi berlusconiani. Ma ora, dopo di lui e senza lui, la mia generazione è chiamata alla maturità.