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Il tema del giorno è sicuramente la riduzione delle Province operata dal Governo tecnico. Si è passati da 86 enti a 51. Eppure non pare che questo porterà particolare beneficio alle casse dell’erario, se è vero che – come dimostrò qualche mese fa con un apposito studio la Cgia di Mestre – l’abolizione totale avrebbe garantito un risparmio di spesa annuo attorno a soli 510 milioni di euro. Questa operazione, piuttosto, va inserita nell’ampio tema del rapporto tra Stato ed enti locali. E al momento il Governo Monti sembra inseguire il peggiore dei populismi, quello per cui Regioni, Province e Comuni sono visti come enti inutili, spendaccioni e da affamare. Dentro simile foga “semplificatoria” le nuove Province diventano un organo non più eletto e controllato direttamente dai cittadini. La Giunta provinciale scompare e non si capisce bene di cosa dovrebbero occuparsi i “nominati” dai Comuni. Questi ultimi, poi, sono stati ridotti a semplici esattori: alle amministrazioni locali vengono tagliati i trasferimenti e viene lasciata solo la facoltà di rastrellare il pagamento dell’Imu “per conto terzi”. Infine le Regioni. Con gli ultimi scandali il Governo Monti pare aver preso la palla al balzo per dare un giro di vite, riformando il Titolo V della Costituzione e imponendo il controllo preventivo della Corte dei Conti ad ogni delibera e atto.

Invece di proseguire nel disegno di un moderno Stato federale, raddrizzando le storture che sicuramente ci sono state in questi decenni, il Governo Monti decide di tornare indietro sulla strada dello Stato accentratore, con il suo strascico di forti tasse e deficit (quest’anno + 4,4 in rapporto al Pil). Per questo qualche giorno fa, in Consiglio comunale, maggioranza e opposizione hanno votato all’unanimità un Ordine del Giorno per verificare la costituzionalità dell’Imu. O meglio, di come è stata anticipata un anno fa la sperimentazione con il Decreto “Salva Italia”, per cui metà dell’imposta sulle seconde proprietà se l’è presa lo Stato, costringendo i Comuni ad elevare al massimo l’importo.

Oggi più che mai il tema del controllo della spesa pubblica e, unitamente, della pressione fiscale (il rapporto tra imposte e tributi pagati dai contribuenti e la ricchezza prodotta) sono intimamente legate alla necessità di un riassetto istituzionale. Tuttavia occorre un passo in avanti per compiere la riforma dello Stato e non uno indietro di decenni. Se si aboliscono le Province, per esempio, si incentivino i Comuni sotto i 5mila abitanti, cioè il 72% di quelli italiani in cui vive solo il 19% della popolazione, ad aggregarsi e risparmiare così in spese di funzionamento, sull’esempio di quanto fatto nel Canton Ticino circa dieci anni fa. Questo implicherebbe, però, uscire dalla logica punitiva nei confronti di chi amministra e fa politica seriamente, che sembra invece dominare anche certe scelte governative. Uscire da questa logica e compiere il cammino di riassetto istituzionale significa anche procedere nella riduzione delle Regioni. Nel 1992 la Fondazione Agnelli propose di passare dalle attuali 20 a 12. La proposta presupponeva che una regione, per potere gestire nuove e più ampie competenze, dovesse godere di un’autosufficienza finanziaria. A fine anni ’80 solo 4  potevano dirsi finanziariamente autosufficienti e anzi pagavano di più, in termini di prelievo, di quanto non ricevessero in termini di spesa pubblica (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna). Negli anni ‘90 le regioni autosufficienti sono aumentate (si sono aggiunte Friuli, Liguria, Toscana, Marche, Lazio). Segno davvero che va compiuta la riforma riducendo l’attuale frammentazione regionale. Anche perché al crescere della demografia regionale aumenta la possibilità di raggiungere l’autonomia finanziaria. Infine, si attui l’art. 116 della Costituzione sul federalismo differenziato: maggiori ambiti di autonomia a chi è in grado di meglio governare. Perché responsabilizzare maggiormente i territori è l’unica via verso il risanamento del Paese. Pensiamo solo alla spesa assistenziale. Oggi il “grosso” viene gestito centralmente dagli enti previdenziali, e a quelli locali rimangono le briciole da litigarsi. Il risultato però è che in certe regioni su 100 euro di prestazioni l’INPS ne incassa solo 25. Alberto Brambilla, autore di uno studio sulla spesa sociale regionalizzata, ha spiegato che se si creassero le condizioni per una autosufficienza delle regioni almeno del 75%, dimezzeremmo in trent’anni il debito pubblico. E senza un maggior aggravio fiscale.

Se l’avvento del Governo dei tecnici ha segnato il fallimento della politica e il crescere dell’antipolitica, nuove proposte politiche sui contenuti fin qui esposti potrebbero segnare una rinascita. Tanto dei partiti, quanto del Paese intero.

Matteo Forte

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