Un’eccezione tutta milanese. Così posso definire il carcere di Bollate dopo averlo visitato sabato 12 in mattinata, insieme ad un ex consigliere comunale e ad un consigliere di zona. L’invito è arrivato dall’Associazione di volontari Incontro e Presenza, che dal 1986 opera nei carceri di San Vittore, Monza, Bollate e Beccaria.
Questi amici ci spiegano che, prima di ogni “azione buona” a sostegno del detenuto, loro vanno periodicamente in carcere per incontrare le persone che si trovano lì. Spiegano che dai rapporti instaurati è nata «una compagnia che può durare anni, attenti a tutti i bisogni e tesa a realizzare ogni possibile risposta. Sono iniziate così le raccolte di indumenti e articoli igienici per i detenuti, il sostegno ai familiari ed il reinserimento lavorativo e sociale». E poi: «Molte di queste persone carcerate hanno chiesto di poter partecipare attivamente alla nostra opera, consegnando i pacchi del Banco Alimentare, smistando i vestiti in magazzino, sostenendo gli altri detenuti con la stessa modalità con cui loro stessi sono stati sostenuti».
Questo modo di stare in rapporto con il detenuto non è semplice solidarismo. Tutt’altro. È l’unica modalità per recuperare la persona. Lo documentano del resto non solo i rapporti che i volontari dell’Associazione testimoniano e raccontano. Lo documenta anche una struttura come quella di Bollate che interagisce con una fitta rete di associazioni, volontari, cooperative sociali e imprese. Il lavoro ed i rapporti umani riattivano l’uomo, dandogli una prospettiva che, per esempio, dimezza la percentuale di recidività. Quella nazionale, infatti, s’aggira intorno al 60%, mentre a Bollate la media è del 30%. Il metodo, dunque, conviene anche alla società in termini di investimento in sicurezza e di riduzione della spesa. Perché? È presto detto: un detenuto che non si deprime ed ha la possibilità di ricostruire la propria personalità attraverso rapporti umani con chi gli fa periodicamente visita, o gli offre un impiego anche durante la carcerazione, grava meno per spese sanitarie, si muove in capannoni e strutture non per forza sostenute dal pubblico ed una volta che esce di prigione ha sperimentato la possibilità di una vita in comune rispettosa delle regole e degli altri.
L’alta percentuale di lavoratori all’esterno, 100 detenuti su 1110, e i domiciliari in carico alla struttura di Bollate (311), dicono che le misure alternative alla carcerazione fanno bene. Alla persona e alla comunità. E ancora una volta questa importante scoperta nasce dall’intraprendenza di chi nella società individua e condivide i bisogni degli altri. La politica farebbe bene ad essere più attenta a queste dinamiche. Per la sicurezza e il portafogli di ciascuno.