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Un nuovo capitolo della terza guerra mondiale a pezzi

278263075_10226831685478996_5221528221249006666_nIl contesto internazionale è mutato rapidamente negli ultimi anni. La pandemia ha indubbiamente accelerato il cambiamento. La guerra delle ultime settimane nel cuore dell’Europa, con l’aggressione di Putin all’Ucraina, segna sicuramente una novità irreversibile per il vecchio continente, ormai da qualche anno a metà del guado nella edificazione di istituzioni comunitarie e politiche. Da qui siamo partiti per una chiacchierata che questa mattina ho avuto l’onore di moderare all’interno della Scuola di Formazione “Pensare il futuro” della Fondazione Costruiamo il Futuro. Nella cornice della torre PwC a CityLife si sono alternati per offrire agli iscritti e al pubblico presente la propria interpretazione i direttori del Tg1 e de La Repubblica, Monica Maggioni e Maurizio Molinari, il vicepresidente dell’Ispi, prof. Paolo Magri, l’ex Capo staff del premier inglese Theresa May e attuale membro della Camera dei Lord, sir Gavin Barwell, e in collegamento da remoto il ministro della Difesa, on. Lorenzo Guerini.

Il punto di partenza della riflessione è stato offerto dalla chiave di lettura con cui papa Francesco, già all’inizio del suo pontificato di fronte al deflagrare del conflitto siriano, ha parlato di “terza guerra mondiale a pezzi”: considerando che alla conferenza di Monaco sulla sicurezza del febbraio 2007 Putin provocò l’Occidente contestando l’ordine unipolare (cui seguì nell’agosto 2008 l’attacco di Mosca alla Georgia, la prima volta dopo il 1989 in cui “la Russia e le potenze occidentali si erano impegnate in una guerra per procura” secondo lo storico Adam Tooze), possiamo parlare di quella in Ucraina come di un nuovo capitolo del conflitto globale già in atto?

Ha esordito il ministro Guerini chiarendo la posizione italiana e la scelta di fornire armi agli ucraini. In particolare il titolare della Difesa ha chiarito che “non c’è un meccanismo che ci ha portato qui”, non c’è una inevitabile concatenazione di azioni e reazioni, quanto “la volontà di invasione di Putin”, la violazione del diritto internazionale che non trova alcuna giustificazione adeguata in circostanze precedenti all’attacco del 24 febbraio scorso. Tanto Guerini quanto il prof. Magri hanno sottolineato il fatto che siamo dentro ad “un sentiero stretto”, in cui un Putin messo in difficoltà potrebbe aumentare “l’intensità tattico-strategica”. Per questo, ha ammesso il vicepresidente dell’Ispi, “non vogliamo che Kiev perda, ma nemmeno che Putin perda male”. In fondo è intorno a questo tema che si sviluppa tutto il dibattito sulla volontà o meno di sostenere la resistenza ucraina all’invasore.

Magri ha altresì sottoposto a tutti la contraddizione per cui a fronte di 1 mld in armamenti fino ad ora offerto all’Ucraina, l’Europa nello stesso periodo ha pagato la guerra a Mosca tramite 35 mld di pagamenti per le forniture di gas. Del resto si tratta di una contraddizione difficile da sciogliere nel breve tempo, visto che l’Ue dipende per circa il 40% da Mosca e, come ha spiegato l’Eni nel suo rapporto 20-F depositato alla Consob americana solo due giorni fa, interromperne le forniture implica “subire effetti negativi che attualmente non possiamo prevedere o quantificare, ma potrebbero essere rilevanti“. In più, precisa sempre Eni, i contratti con Gazprom sono tali per cui il quantitativo concordato va pagato anche se non si consuma.

Sollevando lo sguardo oltre la politica energetica e le conseguenza economiche, la discussione si è spostata sul ruolo e la coscienza della nostra parte di mondo, in un contesto in cui per noi si è verificato “il ritorno del nemico. La Russia – ha detto Molinari – ha scelto di essere un nemico che ha una visione a noi alternativa”. Visioni, quella del Ruskij Mir (Mondo russo) e quella nostra di europei occidentali, in cui “l’informazione è un pezzo della guerra”, come ha riconosciuto Monica Maggioni. A tal proposito la direttrice del Tg1 ha anche ricordato la necessità di un’autocritica da parte dell’Occidente, perché “Guantanamo è ancora aperta” ed episodi come quello contraddicono inevitabilmente i valori di libertà e democrazia per i quali sosteniamo Kiev contro l’aggressione russa. Così come non può piacerci tutto dell’Ucraina, perché “estremisti nazionalisti ci sono”; tuttavia autocritica e critica non possono essere una scusa per non prendere parte al conflitto e contrastare una potenza per la quale “non è scontato che noi viviamo in pace, possiamo camminare per le nostre strade e vedere in piedi i nostri bei grattacieli: domani tutto questo potrebbe non esserci più”. In Occidente è possibile essere contro le scelte dei propri governi, mentre in Russia chi usa la parola ‘guerra’ viene incriminato. In Occidente c’è la libertà di esprimersi, mentre in Russia la stampa e i siti internet critici verso il Cremlino vengono chiusi. Da noi c’è la libertà religiosa, mentre in Russia i limiti storici del cesaropapismo non lasciano spazi di manovra se non alla Chiesa ortodossa di Stato. Nonostante tutte le storture, l’Occidente e l’Europa rimangono spazi di libertà, non fosse altro che costituiscono quasi un sogno, se non un vero e proprio punto di approdo, di milioni di profughi ucraini.

La visione inglese dell’attuale contesto internazionale è stata ben rappresentata dal conservatore lord Barwell, il quale ha parlato di “una minaccia comune alle democrazie”, di fronte alla quale in “un mondo sempre più multipolare” bisogna “smettere di pensare solo come Occidente” ed entrare invece nell’ottica di un fronte comune di tutti i sistemi democratici, che comprenda ad esempio Australia e Nuova Zelanda. Una visione che risente l’influenza della Gran Bretagna del commonwealth e del post-Brexit, partner degli europei ma non più membro Ue, come ai tempi in cui Winston Churchill pubblicava il 15 febbraio del 1930 sul Saturday Evening Post un articolo intitolato “Gli Stati Uniti d’Europa”. Effettivamente in esso il futuro primo ministro inglese, in coerenza con la sua battaglia antitotalitaria, sostenne la necessità per i paesi del vecchio continente di unirsi per contenere ed isolare la rivoluzione bolscevica, ma precisando che “la Gran Bretagna non appartiene a nessun continente, ma è la componente di ognuno, appartiene al vecchio come al nuovo mondo, all’emisfero occidentale come a quello orientale”.

Sarebbe interessante a questo punto immaginare un qualcosa di simile a quanto avvenuto nel 1975 con gli accordi di Helsinki. Secondo Molinari, che ha concluso il dibattito, quella conferenza paneuropea, che vedeva coinvolti 35 paesi europei insieme a Usa e Urss, scambiando l’inviolabilità delle frontiere europee (cosa gradita alla parte sovietica) con la codifica nell’art. 7 degli accordi dei diritti umani e in particolare della libertà religiosa, non cristallizzò affatto lo status quo come paventarono molti critici dell’epoca. Tutt’altro. Ha ricordato Molinari che proprio quell’art. 7 contribuì alla clamorosa ribalta sulla scena pubblica dell’Est del movimento sindacale di Solidarnosc, guidato da Lech Walesa, e dunque all’accelerazione della dissoluzione del blocco sovietico.

Certo, in quest’ottica si dovrebbe aprire anche all’interno della stessa cultura occidentale un grande dibattito sul contenuto dei diritti umani se, come ha dichiarato sempre in conclusione il direttore Molinari, questi ultimi comprendono pure le rivendicazioni dei movimenti Lgbt. Occorre infatti chiarire il fondamento ultimo dei diritti umani, in modo da sottrarre anche il concetto di dignità umana a quell’uso distorto e strumentale che ha finito per trasformare nei nostri ordinamenti ogni capriccio individuale in un diritto codificato e sconnesso dai rispettivi doveri verso la collettività.

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