di Francesco Ognibene, su Avvenire del 4 giugno 2024
La vicenda processuale sul tragico caso di Eluana Englaro non è ancora conclusa. Al vasto dossier di sentenze che si sono succedute negli anni dall’incidente nel 1992 alla morte della giovane in stato vegetativo, il 9 febbraio 2009 nella clinica “La Quiete” di Udine dopo un lungo ricovero presso la struttura delle suore Misericordine a Lecco, si aggiunge ora il verdetto col quale la Corte dei Conti chiede all’allora direttore generale della Sanità in Regione Lombardia Carlo Lucchina di risarcire l’erario dei 175mila euro che la Regione dovette pagare a Beppino Englaro, papà di Eluana, a titolo di rimborso per i danni subiti e le spese sostenute per non aver potuto “terminare” la figlia in una struttura sanitaria lombarda.
La successione dei fatti è nota, e ancora dolorosa. Alla sentenza decisiva della Cassazione che nel 2007 autorizzava l’interruzione delle cure inclusi i trattamenti di sostegno vitale, come la nutrizione e l’idrata-zione, era seguito l’anno dopo il via libera della Corte d’Appello al distacco dei supporti di base. Ma la Regione Lombardia per disposizione di Lucchina si era opposta al fatto che in Lombardia si potesse dare la morte a una disabile grave, ricordando che i sanitari che l’avessero fatto sarebbero «venuti meno ai loro obblighi professionali». Un atto formale che obbligò Beppino Englaro a cercare fuori regione una struttura disponibile a sospendere i sostegnivitali (Eluana non aveva bisogno di altro per vivere che di essere nutrita e idratata, come milioni di non auto-sufficienti). Di qui il braccio di ferro economico, con una prima sentenza di assoluzione e una seconda di condanna, che ora presenta il salatissimo conto a Lucchina. E a tutta una visione di un caso paradigmatico del modo in cui si vede la vita, la cura e la morte.
Al di là del merito, sono le motivazioni dei magistrati contabili che danno da riflettere: a guidare Luc-china infatti sarebbe stata una «concezione personale ed etica del diritto alla salute», «frutto di una personale e autoritativa interpretazione del diritto alla vita e alla salute». Parole che a sinistra evocano la necessità di una legge sull’eutanasia: «A distanza di molto tempo è scandaloso che l’Italia non abbia una legge sul fine vita», dice Luana Zanella, capogruppo alla Camera di Alleanza Verdi e Sinistra, che però dimentica la legge 217 del 2019 sulle disposizioni anticipate di trattamento, che recepì quanto accadde a Eluana e, nel 2017, a dj Fabo. Di «segnale allarmante» e di «pericolosa deriva che scoraggia la cura dei malati gravi» parla invece la vicecapo-gruppo di Fdi a Montecitorio Augusta Montaruli. Da Palazzo Lombardia reagisce indignato Matteo Forte, presidente della II Commissione Affari istituzionali ed Enti locali del Consiglio regionale della Lombar-dia: «Stupisce che non si siano affrontate le questioni giuridiche di merito che portarono a quella legittima scelta di Regione Lombardia, ma sièinteso invece giudicare la coscienza personale» di «uno dei migliori dirigenti che il sistema sanitario regionale abbia mai avuto, che allora come sempre non si è mosso per convinzioni personali, ma forte del parere dell’Avvocatura regionale». Forte ricorda la «situazione senza precedenti», con la Cassazione che si era appellata «alla controversa ricostruzione postuma della volontà della donna sulla base dello stile di vita precedente alla condizione di disabilità in cui si era venuta a trovare, e in totale assenza di una normativa specifica di riferimento».
Gli esperti di biodiritto non sono meno interdetti. Domenico Menorello, giurista, componente del Comitato nazionale per la Bioetica e coordinatore della rete di associazioni “Ditelo sui tetti” per la dignità della vita, è colpito dal paradosso: «Lucchina, assolto in primo grado, viene ora condannato per avere applicato la normativa (leggi e statuti) che orienta il Servizio sanitario nazionale alla cura della persona in un tempo in cui comunque non erastata nemmeno approvata la legge sul fine vita e la Corte costituzionale non si era ancora pronunciata sulla limitata non punibilità dell’assistenza al suicidio. Ciò che è ancor più grave è la considerazione per cui egli avrebbe operato in quanto cattolico», la
“concezione personale” evocata dalla sentenza. «Mi auguro – conclude Menorello -, al di là delle diverse opinioni, tutto il mondo cattolico così come tutto il mondo autenticamente liberale rifiuti questo pregiu-dizio, che espone ogni credente a un pubblico sospetto discriminatorio, secondo cui i cattolici sarebbero portati ad agire secondo una implicita coscienza difforme dalle leggi dello Stato». Di «condanna para-dossale» parla Giovanna Razzano, costituzionalista della Sapienza, anche lei componente del Cnb: «La Cassazione autorizzò il tutore e non un medico o una struttura sanitaria a distaccare il sondino. Come dare torto e addirittura condannare per danno erariale chi, in questa ingarbugliata vicenda, ha fatto proprio il principio di precauzione, in specie quello in dubio pro vita, che accompagna da sempre l’esperienza umana, etica e giuridica?». La conclusione interviene sull’ipotesi di una nuova legge: «Per la Costituzione, dal diritto alla vita, primo dei diritti inviolabili dell’uomo, discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire».